Stop al cram down fiscale se l'accordo non è registrato
Con la sentenza n. 34026 del 16 novembre 2023, la Corte di appello di
Milano ha affermato che ai fini dell’omologazione coattiva dell’accordo
stipulato con uno dei creditori è necessario che tutti gli altri
creditori ne possano essere informati e possano esercitare i loro
diritti e cioè, non solo che il nuovo accordo sia attestato, ma anche
depositato per la pubblicazione nel Registro delle imprese
Il caso
Una società formulava una proposta di transazione, ex articoli
57 e 63 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII),
indirizzata, tra gli altri, ad Agenzia delle entrate, Agenzia delle
entrate-Riscossione e Inps.
Decorsi 90 giorni, nessuno dei creditori formalizzava il proprio
assenso, mentre l’Agenzia delle entrate comunicava motivato
provvedimento di rigetto.
La ricorrente depositava dinanzi al Tribunale di Milano ricorso per omologazione forzosa ex articolo 62, comma 2-bis del codice richiamato.
Il Tribunale - dopo aver rilevato una serie di criticità, compreso il
fatto che nessun accordo con alcun creditore era stato raggiunto -
omologava l’accordo concluso nelle more del procedimento con un
creditore privato, di natura bancaria, con estensione
all’Amministrazione finanziaria e all’Inps (cfr sentenza n. 512/2023).
Con la sentenza in esame, la Corte di appello di Milano ha accolto il reclamo dell’Agenzia e rigettato la domanda di cram down
invocata a suo tempo nei confronti dell’ufficio richiamando al rigoroso
rispetto della sequenza procedimentale prescritta dagli articoli 57 e
seguenti CCII.
Osservazioni
Ancora una volta i giudici della Corte di appello milanese hanno
ribadito il principio secondo cui, in assenza di un accordo sopraggiunto
con alcuno dei creditori, non si può far luogo all’omologazione
coattiva della proposta di transazione fiscale (cfr Corte di appello Milano, pronuncia del 23 febbraio 2023).
Nel caso in esame, mancando la pubblicazione nel Registro delle imprese
dell’accordo concluso col creditore bancario, difetta la condizione per
l’invocata operatività del cram down e cioè l’esistenza di un
qualche accordo tra debitori e creditori, da intendersi come volontà
contrattuale bilaterale o di più parti. Mancando, dunque, in radice un
accordo tra le parti, non poteva esserci omologa coattiva da parte del
Tribunale, non essendo ravvisabile alcun interesse concorsuale in
funzione del quale la volontà del Fisco dovesse essere sacrificata a
quella del debitore.
La sentenza in questione fa, altresì, chiarezza su un aspetto di
particolare rilevanza e che attiene al meccanismo procedurale disegnato
dall’articolo 48, comma 4 CCII e alle ripercussioni che quest’ultimo può
avere sull’azionabilità del reclamo ex articolo 51 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
La reclamata, facendo appiglio alla risalente Cassazione sezione I, n. 5877/1991 (“Anche
nel procedimento camerale, così come nel giudizio contenzioso
ordinario, la qualità di parte e quindi di soggetto legittimato al
reclamo ex art. 739 c.p.c, si determina, nei gradi del procedimento
successivi al primo, esclusivamente “per relationem”, rispetto alla
qualità di parte formalmente assunta in primo grado”), eccepiva
l’inammissibilità del reclamo, evidenziando che l’Agenzia, non avendo
proposto formale opposizione all’omologazione ex articolo 48, comma 4
CCII e non avendo partecipato al relativo procedimento, non fosse
soggetto legittimato al reclamo.
Sul punto, i giudici della Corte di appello di Milano affermano, invece, che “in
una situazione siffatta non è consentito dubitare della legittimità
dell’iniziativa di Agenzia delle entrate, senza che possa assumere
rilievo la mancata proposizione della opposizione all’omologazione”. In particolare, viene evidenziato che l’accordo concluso col creditore privato “è
stato stipulato dopo oltre tre mesi dal deposito del ricorso ex art. 57
CCII, non è stato iscritto nel Registro delle imprese ed è stato
omologato dal Tribunale senza neppure che sia stata disposta una qualche
sua comunicazione ai creditori: dunque, è evidente che ad Agenzia delle
entrate non è stata garantita, innanzitutto, la conoscenza
dell’accordo, esigenza alla quale è preordinato il regime di pubblicità
previsto dalla legge e, conseguentemente, le è stata inibita la
possibilità di sottoporre le proprie ragioni al Tribunale attraverso la
proposizione di rituale opposizione”.
Ebbene, nel riconoscere la fondezza del reclamo, la Corte di appello di Milano ha, di fatto, censurato il modus operandi del Tribunale che aveva imposto il cram down
fiscale senza assicurare il rigoroso rispetto degli adempimenti
procedurali che governano la procedura degli accordi di
ristrutturazione.
Il sopraggiunto accordo con l’istituto bancario (raggiunto dopo oltre
tre mesi dal deposito del ricorso!) non era, infatti, mai stato
trasmesso ai creditori, tanto meno all’Agenzia delle entrate, né
risultava essere stata iscritta nel Registro delle imprese alcuna
domanda di omologa forzosa ulteriore e/o integrativa rispetto a quella
originaria.
Di fatto, il giudizio per l’omologazione forzata era stato ricondotto a
un mero colloquio a due tra il Tribunale di Milano e la Società, senza
che fosse assicurata ai creditori la notizia del nuovo accordo mediante
pubblicazione nel Registro delle Imprese.
In effetti, è solo a partire da quella data – e solo da allora – che
sarebbero potuti decorrere i 30 giorni previsti dall’articolo 48, comma 4
CCII, per consentire ai creditori di costituirsi con formale
opposizione.
Nel caso in esame, invero, è stata di fatto sterilizzata la ratio
sottesa all’articolo 48, comma 4 CCII, di garantire al creditore
dissenziente e a ogni altro interessato una finestra di intervento per
la tutela delle proprie ragioni all’interno del procedimento unitario
instaurato dal debitore ricorrente, collocata proprio tra il ricorso per
l’omologa forzosa e l’omologa stessa.
I giudici del riesame hanno, dunque, affermato che “Il reclamo alla
Corte di appello risulta essere, quindi, per l’ente, l’unico strumento
per dolersi dell’irregolarità del procedimento e della lesione dei suoi
diritti, pregiudicati dalla decisione del Tribunale di omologare
l’accordo”, ripristinando quell’obbligo di buona fede e trasparenza
cui deve essere ispirata tutta la materia della composizione della
crisi d’impresa.
Ciò non significa che è precluso al debitore di formulare una proposta
di accordo al creditore pubblico anche successiva a quella denegata, che
possa essere accettata e portare consensualmente a un accordo
definitivo da omologare, così come non gli è preclusa la possibilità di
raggiungere accordi nuovi con i creditori, anche nelle more di un
procedimento per l’omologazione già avviato.
È imprescindibile, però, che il creditore (dissenziente o meno) venga
posto nelle condizioni di avere una conoscenza del piano di risanamento
nella sua totalità, ivi comprese le proposte avanzate ai creditori
privati e – a maggior ragione – gli accordi transattivi con essi
eventualmente raggiunti, conoscenza che deve essere assicurata
tassativamente attraverso la pubblicazione nel Registro delle imprese.
La sentenza in commento precisa, infatti, che tali ipotesi “deve
essere osservata la sequenza procedimentale prescritta dall’art. 57
CCII, sì che tutti gli altri creditori ne possano essere informati e
possano esercitare i loro diritti. È necessario, cioè, non soltanto che
il nuovo accordo sia attestato, ma anche che sia depositato per la
pubblicazione nel Registro delle imprese.
Fonte: https://www.fiscooggi.it/rubrica/giurisprudenza/articolo/stop-al-cram-down-fiscale-se-laccordo-non-e-registrato
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